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Ilfattoquotidiano.it: L’applauso non è democratico, spesso è l’eco di un luogo comune

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Mi trovavo anni fa sulla banchina della metro B in accaldata compagnia di turisti e pendolari, quando l’altoparlante annunciò guasto e conseguente ritardo del treno. La folla di utenti, fino a poco prima inerte e come spossessata della propria identità in una sorta di osmosi malvagia col luogo e l’attesa, scoppiò all’unisono in un fragoroso applauso sarcastico. Qualcuno gridò “bravo!”, come all’opera, altri fischiarono all’americana. Ecco un applauso che restituisce dignità all’essere umano invece che togliergliela, pensai. Perché questa che viviamo è l’epoca dell’applauso. Applaudiamo tutto. L’atterraggio dell’aereo; i morti famosi; gli urlatori nei talk show; il passaggio del feretro; il Papa che minaccia pugni a chi gli offende la mamma e il Papa che dice no alla violenza.

L’applauso è il corrispettivo analogico del like sui social network. Non costa niente, non impegna e ci risparmia dall’approfondimento. Massimamente applaudito è di solito l’emerito imbecille che dice bene ciò che la maggioranza pensa. Gli studi Tv sono pieni di nostri simulacri che applaudono indifferentemente il politico di destra e quello di centro, quello che interrompe e quello che dice “io non l’ho interrotta”, quello che vuole bruciare i campi rom e quello che dice che non si fa. L’applauso è erga omnes, ma non è democratico. Il più delle volte è “l’eco di un luogo comune” (Ambrose Bierce, Il Dizionario del diavolo), e dunque demagogico, liquidatorio e in definitiva fascista. La folla che applaudiva Mussolini (e in Storia emotiva dell’Italia fascista Cristopher Duggan spiega come la prossemica e la retorica del Duce fossero studiate per facilitare l’applauso), era la stessa che, sempre applaudendo, ne oltraggiò il cadavere a piazzale Loreto.

Nei luoghi delle istituzioni, l’applauso è un modo per esprimere adesione sentimentale a ciò che nella condotta e nella morale dei politici viene costantemente negato; oppure servilismo da gregari. In Interno berlinese di Liliana Cavani vari funzionari del Reich ascoltano una trasmissione di propaganda, e ogni volta che sentono nominare Hitler, scioccamente, acriticamente, battono le mani. Applausi vivissimi accolsero la frase “Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere!”. Trentuno applausi hanno interrotto il discorso di re-insediamento di Napolitano, tutto incentrato sull’inettitudine dei plaudenti.

L’origine antropologica del gesto è brutale: gli applausi servivano a coprire le grida delle vittime dei sacrifici. E ancora oggi ogni volta che si applaude qualcosa muore, spesso il buon senso e il buon gusto. Dal rito, all’interno borghese: il sublime ironista Karl Kraus scrisse ne Gli ultimi giorni dell’umanità: “Una signora ha appena recitato Heine con grande sentimento e ha riscosso molti applausi”, e la scenetta è un epitaffio sulla natura benpensante e codina della pratica in questione. Kafka fa applaudire gli umani come scimmie davanti alla saggia scimmia di un Relazione per un’Accademia, e quanto sono terrificanti gli applausi ne Il processo! Più di quelli delle direzioni Pd.

Noi siamo la civiltà che applaude ai funerali(ma chi è stato il primo? E come ha osato?), insipienti o indifferenti all’ambiguità del gesto, se sia rivolto al morto o alla sua dipartita, incapaci di gestire il dolore senza pubblicizzarlo con lo schiamazzo.

Dunque sperando di non essere applauditi da morti, in vita non ci resta che tendere alla sprezzatura sovrana delle Satire di Orazio: “La gente mi fischi, ché dentro casa io mi applaudo da solo”.

di Daniela Ranieri – Ilfattoquotidiano.it

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