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Piazza Armerina: Cuffaro presenta il libro “L’uomo è un mendicante che crede di essere un re”

Cuffaro

Piazza Armerina – Era gremito il Salone delle feste del Circolo di Cultura. Tanti amici piazzesi e molti venuti da fuori, hanno accolto un uomo nuovo, diverso, forse migliore, di sicuro più consapevole. Totò Cuffaro, l’uomo passato dai saloni dorati di Palazzo D’Orleans ad una cella del carcere romano di Rebibbia, ieri sera era a Piazza Armerina a presentare l’ultimo libro sulla dura esperienza della reclusione, scritto in carcere in forma di metafora, “L’uomo è un mendicante che crede di essere un re”. I proventi della vendita del libro serviranno per realizzare due campetti di calcio all’interno delle carceri italiane.

Il Presidente del Circolo di Cultura, Filippo Gamuzza e Massimo Di Seri, hanno accolto l’autore; Massimo ha tracciato la biografia dell’amico Totò Cuffaro, ripercorrendo le tappe della sua sfolgorante carriera politica, fino al processo per favoreggiamento aggravato che lo ha visto condannato a sette anni di reclusione.

L’esperienza del carcere ha segnato in modo indelebile l’uomo e ha svelato un aspetto dell’organizzazione dello Stato che gli uomini di governo conoscono in maniera superficiale e che rimane agli ultimi posti dell’agenda politica: il sistema carcerario.

Cuffaro è umilissimo nel suo intervento, ricorda i tempi del suo potere, ribadisce di aver rispettato la sentenza, di averlo fatto a maggior ragione per essere stato un uomo delle istituzioni, non si esprime sulla giustezza della condanna, ammette di aver fatto qualche errore: «La facilità del rapporto umano, la consuetudine a stringere le mani, a baciare gli altri per le strade della mia terra, fanno parte del mio carattere, della mia espansività; avrò stretto una mano sbagliata, avrò baciato qualcuno che non avrei dovuto, ma non è facile distinguere. Comunque Cuffaro ammette di aver sbagliato, di aver esposto la Sicilia e i Siciliani a facili critiche al di là dello stretto. Chiede scusa ai siciliani e dice: «Chiederei perdono, ma il perdono è più un valore cristiano, riguarderebbe solo alcuni, per questo chiedo scusa, più laicamente, a tutti i siciliani!».

Nella sala il silenzio è pesante, interrotto solo dal cigolio della porta che accoglie i ritardatari. L’attenzione fortissima, Cuffaro parla con la stessa voce che fu quella dell’orgoglioso governatore di Sicilia e parla delle condizioni miserabili del sistema carcerario. La sua denuncia è limpida e impietosa: «Che Stato è quello Stato che impedisce ai detenuti di parlare con i propri figli, che pretende di rieducare uomini che invece costruiscono solo rancore per le condizioni inumane in cui sono detenuti. La Comunità europea ci suggerisce, negli allevamenti, a destinare un minimo di sette metri quadri per ciascun maiale allevato: in cella, quattro detenuti condividono otto metri quadrati».

Da ex detenuto Cuffaro ha un pensiero dissonante anche per gli operatori carcerari. «Gli agenti penitenziari vivono il carcere allo stesso modo dei detenuti. Turni massacranti, ogni giorno gli agenti penitenziari e il resto degli operatori, sono tutti a contatto con la tragedia di una comunità disperata, dove ogni cosa funziona secondo schemi particolari. Sono uomini che vivono il loro lavoro immersi nella stessa tragedia!».

In carcere non c’è recupero né redenzione, il carcere entra dentro la vita dei detenuti e delle loro famiglie, pur tuttavia è una esperienza totale che restituisce una straordinaria consapevolezza, impossibile da capire per chi non la vive e che soprattutto allena a far cose impensabili. «Ho scritto ogni genere di cosa – dice Totò Cuffaro – ho conosciuto ogni genere di uomo, ho studiato e sto per laurearmi in giurisprudenza, ho seguito perfino cartoni animati che non avrei mai visto. In carcere il tempo ha un’altra dimensione».

Ma la lezione sulla quale insiste l’autore con una certa durezza, nella quale la voce si fa più robusta, riguarda proprio noi, il suo pubblico attuale, l’opinione diffusa: «Bisogna accostarsi al problema della detenzione con umiltà e con prudenza, perché l’opinione pubblica ha gravi ripercussioni sull’operato dei politici. Ci vuol poco a dire “le carceri devono essere più severe”, “bisogna chiudere i condannati e buttare via le chiavi”. Se l’opinione pubblica dice questo, la politica finisce col fare questo!».

Sui suicidi in carcere Cuffaro non perdona per primo se stesso: «Abbiamo da tempo abolito la pena di morte, ci siamo messi la coscienza a posto! Eppure la classe politica italiana (e succedeva anche a me!) non si accorge che ogni anno in carcere muoiono più uomini di quanti non ne siano uccisi con la sedia elettrica. E’ uno Stato ipocrita quello Stato che dice di aborrire la pena di morte e lascia che che i suoi detenuti si condannino a morte da soli: che non interviene almeno su questo!».

In conclusione Cuffaro ricorda il suo ultimo giorno a Rebibbia, quando i detenuti, uomini di tante razze e di tante nazionalità, si passavano fra loro un foglio, sul quale scrivevano qualcosa, alla fine a consegnarlo con qualche parola sarà un ergastolano: «Fra le altre ipocrisie – dice Totò Cuffaro – c’è la soppressione dell’ergastolo, oggi si dice fine pena 9.999, ci sono uomini a cui è negata perfino la speranza di poter tornare a vivere la libertà, di poter tornare ad essere utili alla propria famiglia e alla società. Quell’uomo consegnando il foglietto, mi ha insegnato che a Dio bisogna esser grati di aver vissuto anche la terribile esperienza della detenzione. Bisogna essere grati della vita che il Signore ci ha concesso anche tra le pareti di una cella».

Della Sicilia che Cuffaro ha ritrovato dopo i suoi 1786 giorni di detenzione parla con comprensione. «So che la Sicilia di oggi è più povera ed è più difficile viverci, ma la crisi colpisce noi due volte di più rispetto alle altre regioni. Perché l’autonomia impositiva e il sistema di riscossione dei tributi hanno una refluenza immediata sul bilancio della Regione: se le imprese non lavorano, se sono colpite dalla crisi, non pagano le tasse e la Regione immediatamente registra il buco di bilancio. E’ a questo che bisogna porre rimedio, una stortura dell’autonomia siciliana che invece di essere una opportunità finisce col danneggiarci».

Non farà più politica Salvatore Cuffaro: intende dedicarsi al bene dell’umanità in un modo nuovo e diretto. Vuole farlo impiegando le sue conoscenze scientifiche e intende farlo nei paesi dove la crisi umanitaria è più profonda e drammatica. «Ma l’interdizione dai pubblici uffici non può impedirmi di pensare e di parlare – dice in conclusione l’ex Presidente Cuffaro – per questo spero di non far mancare il mio apporto perché la Sicilia possa trovare quello che mi sembra manchi in questo momento ai figli della mia terra: l’organizzazione della speranza!».

 Fonte: (Orizzontisicilia.it)  di Maurizio Prestifilippo

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