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“Embraco: solo un altro fallimento italiano”, di Luca Galante

Non capisco cosa ci si aspettava. Sono anni che le aziende di tutte le dimensioni delocalizzano all’estero. Da quando qualcuno ebbe la brillante idea di far entrare la Cina nel WTO dando inizio alla globalizzazione le grandi aziende iniziarono a spostare la loro produzione industriale in Cina, poi, quando si scoprì che le piccole e medie aziende europee non potevano sostenere i costi di una delocalizzazione così lontana qualcun altro si inventò l’allargamento dell’Unione ad est permettendo così, anche a chi aveva soltanto venti o trenta dipendenti di “scappare” dall’Italia.
Nel silenzio generale.
In questo lasso di tempo in Italia si è verificata una vera desertificazione industriale con centinaia di imprese che ogni anno chiudono i battenti per riaprirli altrove, un conseguente drastico ridimensionamento del ruolo dei sindacati prima miopi poi incapaci infine impotenti dinanzi all’aumento della disoccupazione industriale e vittime del ruolo marginale delle sinistre nel panorama politico non solo italiano ma continentale.
Ed ora l’Embraco. Un’azienda come tante, con la sfortuna di aver deciso di chiudere a ridosso delle elezioni e quindi diventata suo malgrado un simbolo di cosa in Italia non dovrebbe accadere ed invece accade, è accaduto e continuerà ad accadere.
Cioè, semplicemente, un imprenditore o una società fa di tutto per guadagnare di più. Come è giusto che sia e come sarà sempre.
Ma, poiché quest’azienda viene descritta come formata da pseudo-criminali in giacca e cravatta (“gentaglia” è stata definita), proviamo a porci qualche domanda e a rifletterci un po’ sopra.
Per il passato recente la classe politica è stata assente, anzi, diciamolo, se n’è fregata di qualsiasi tipo di programmazione industriale cercando di attirare investimenti, di invogliare imprenditori, nell’unico modo che era sicuramente destinato a fallire, cioè abbassando il costo del lavoro, cercando quindi di fare concorrenza sul costo del lavoro a realtà come la Cina, il sudest asiatico, il Messico e l’Europa orientale dove i salari sono più bassi perché il costo della vita è sensibilmente più basso e quindi, semplicemente, possono permetterselo.
Pura follia.
E noi? Subiamo passivamente la desertificazione industriale nella più pura ed assoluta ignavia senza agire su quelle leve che realmente potrebbero convincere gli imprenditori ad investire in Italia o almeno a non andare via.
– Una seria e reale riforma del diritto commerciale.
– La riduzione di almeno il 95% del peso della burocrazia con l’introduzione del provvedimento “a firma unica”, nel quale un unico ente firma qualsiasi tipo di provvedimento assumendosene la responsabilità.
– Una reale riduzione del carico fiscale con l’introduzione di una flat tax attorno al 20%
– Una riforma della scuola orientata verso il mondo del lavoro e che non produca più ragionieri e periti elettronici ma persone che possano lavorare a 18 anni in imprese ad elevata specializzazione, realizzando quindi una reale sinergia tra il mondo della scuola e quello del lavoro
– Un reale miglioramento dei servizi che la pubblica amministrazione dovrebbe fornire a fronte delle tasse versate e che, ad oggi, in molte parti di Italia, sono da terzo mondo.
– Un piano di grandi infrastrutture che siano funzionali allo sviluppo, almeno inizialmente, di singoli distretti industriali. Non si capisce ad esempio il motivo per cui dal nord-Africa un carico diretto via mare in Germania debba essere sbarcato a Rotterdam!
Su questi punti bisogna lavorare. Non solo abbassando il costo del lavoro e riducendo le tutele, altrimenti si genera, come si è visto, soltanto miseria, e non ci resta che correre a piangere come bambini viziati a Bruxelles.
LUCA GALANTE
Edizioni Trinacria SRLS – Società Editrice La Gazzetta Ennese
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Redazione

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