Il popolarismo antidoto al populismo
La lezione sempre attuale di Luigi Sturzo ribadisce l’importanza di avere un programma politico. Questo lavoro, di cui presentiamo alcuni passaggi, è stato sviluppato in una tesi del 15° Corso biennale in Dottrina sociale della Chiesa promosso dalla Fondazione Centesimus Annus Pro Pontifice
Atrofia dell’offerta politica e ipertrofia della domanda
Il populismo non si presenta come un movimento antidemocratico ma come un movimento di denuncia «delle perversioni che affliggono le democrazie». Le soluzioni anche ai temi più complessi diventano quasi scontate. Il binomio populismo-social network è potenzialmente esplosivo. I dibattiti degenerano sistematicamente nei toni con una facilità disarmante e preoccupante. Ci sono spesso anche degli obiettivi «scontati». Di fronte alle reali storture delle Stato, è facile mettere alla berlina il politico di turno che «guadagna troppo», che «lavora poco» e che potrebbe farlo volontariamente. Ovviamente ci sono alcuni partiti che cavalcano l’onda, che risolvono il problema del debito pubblico con la semplice abolizione dei vitalizi e la diminuzione dei parlamentari. Sul banco degli imputati sono finiti anche i professionisti della politica: sia il primo Berlusconi (quando si è presentato nel 1994) sia il primo Renzi (in versione rottamatore anche all’interno del suo stesso partito) hanno, infatti, sempre preso pubblicamente le distanze dai professionisti della politica senza distinguere “buoni” e “cattivi”. Sono gli stessi che in qualche modo strizzano l’occhio ai voti cattolici ma non hanno compreso che l’impegno in politica è una vocazione importante. A questo proposito, Giovanni Paolo II nel 1988 nella «Christifideles laici» scriveva così: «Per animare cristianamente l’ordine temporale, nel senso detto di servire la persona e la società, i fedeli laici non possono affatto abdicare alla partecipazione alla “politica”, (…) destinata a promuovere organicamente e istituzionalmente il bene comune. (…) Le accuse di arrivismo, di idolatria del potere, di egoismo e di corruzione che non infrequentemente vengono rivolte agli uomini del governo, del parlamento, della classe dominante, del partito politico; come pure l’opinione non poco diffusa che la politica sia un luogo di necessario pericolo morale, non giustificano minimamente né lo scetticismo né l’assenteismo dei cristiani per la cosa pubblica».
Il compito dei populisti è senza dubbio quello di alzare le aspettative democratiche. Propongono di rigenerare la democrazia, ripulendola da tutte le sue scorie per tornare ai suoi “veri” principi e valori. «Il manicheismo originale del populismo è costruito – spiegano Yves Mény e Yves Surel – su modalità specifiche che mettono in valore lo squilibrio delle forze e l’importanza dei valori morali. Da un lato la quasi totalità della popolazione (il popolo), dall’altro una minoranza; da un lato la gente onesta e lavoratrice, dall’altro il mondo disonesto della finanza, dello sfruttamento, della corruzione». Fondando la democrazia sulla volontà del popolo, la democrazia diretta diventa la panacea. La particolarità del populismo è di essere antiélite o addirittura antisistema. Fonda le sue radici su argomenti e prese di posizione non scientifiche o anti intellettuali; si appella al “buon senso” popolare. Secondo i due studiosi francesi «il populismo, proprio perché mette il popolo al centro del suo discorso, è e sarà una componente costante dei sistemi democratici. Siamo condannati a convivere con il populismo». Può anche recitare un ruolo purificatore: «Le élite, i partiti e i sistemi devono poter sentire questi appelli e queste critiche ed essere in grado di riformare e di riformarsi». «Sarebbe ingenuo» come afferma Francesco Occhetta etichettare i populismi «come forze di opposizione o semplicemente movimenti antipolitici». I milioni di voti raccolti alle Europee 2014 dalle forze antieuropeiste e nazionaliste non si possono sottovalutare o considerare solo di protesta. Nel saggio «Populismi» ospitato nel numero di giugno-luglio 2017 di «Civiltà Cattolica» Occhetta invita i partiti al «dialogo inclusivo»: «I populismi, in particolare i neo-populismi europei, rimangono dentro la cornice delle democrazie svuotandole di significato, con la stessa funzione dei parassiti in un organismo. Tuttavia la strada istituzionale è quella del dialogo inclusivo. La democrazia o è inclusiva o non è; se non considera tutti uguali e liberi, nega se stessa. La storia del dopoguerra ci insegna che forze populiste e antisistema si sono gradualmente democratizzate attraverso un confronto dialettico maturo con le altre forze politiche».
Tutto questo accade con più fragore nell’era della post-verità dove tutto è ricondotto all’emotività, dove l’universo del verosimile supera la verità. E la post-verità esiste, citando Occhetta, soltanto insieme alla post-autorità e al post-valore. «Nei discorsi pubblici la sentenza del giudice pesa come l’opinione di quanti la commentano. La diagnosi del medico vale quanto l’opinione di chi la giudica. I valori di fede sono questioni private, rilevanti nel dibattito pubblico quanto i gusti personali». Il populismo, che gioca sulla pancia e sui bisogni dei cittadini, ha uno straordinario megafono a disposizione che permette di ampliare a dismisura i suoi messaggi. Viviamo un’epoca nella quale l’emotività (la reazione di fronte a una notizia o a un fatto) è più importante del dato oggettivo. L’opinione pubblica si muove nell’universo del verosimile, non del vero. Trova visibilità, soprattutto nei mezzi di comunicazione di massa, che la ospitano e la influenzano.
L’esempio di Sturzo: il programma è l’elemento di congiunzione tra offerta e domanda
Aveva proprio ragione Bernardo di Chartres quando asseriva che «noi siamo come nani sulle spalle di giganti, così che possiamo vedere più cose di loro e più lontane, non certo per l’acume della vista o l’altezza del nostro corpo, ma perché siamo sollevati e portati in alto dalla statura dei giganti». La frase, è stata ripresa più volte nel corso della storia per sottolineare il debito dei moderni verso gli antichi. Guardando all’Italia, non possiamo non prendere in esame la testimonianza di Luigi Sturzo (1871-1959) che ha sostenuto, formato e accompagnato la discesa in campo dei cattolici sulla spinta della «Rerum novarum» (1891) di Leone XIII. La storia della Chiesa è per sua natura attenta all’uomo. Lo è per il messaggio di Cristo, lo è per la missione della Chiesa nel mondo. È costellata di uomini e donne che, attraverso l’impegno nelle attività politiche, hanno servito Dio. Il pensiero dei cattolici in politica ha grandi maestri ai quali chiedere consigli. Pensiamo solo alla figura di Antonio Rosmini (1797-1855). Nella «Filosofia della politica» sottolinea ad esempio la benefica influenza del cristianesimo sulla morale, sul progresso e sullo sviluppo intellettuale delle società. Utili anche le critiche rosminiane al perfettismo politico. Verso la fine del secolo XIX, quando viene pubblicata la Magna Charta della dottrina sociale della Chiesa, il nuovo sistema economico e i nuovi incrementi dell’industria avevano prodotto in quasi tutte le nazioni una società divisa in due classi: l’una, esigua di numero, che godeva di quasi tutte le comodità in sì grande abbondanza apportate dalle invenzioni moderne; l’altra, composta da una immensa moltitudine di operai i quali, oppressi, s’affannavano per uscire dalle strettezze. Promulgata il 15 maggio del 1891, la «Rerum novarum» di Leone XIII è importante e risponde a un lungo processo di gestazione che aveva visto i primi segni con le Associazioni cattoliche e con le Opere Pie. Papa Pecci, che affidò il suo pontificato a San Tommaso, rinnovò la Chiesa, ponendola di fronte alle cose nuove, in un’epoca di forte scristianizzazione: la rinascita del cattolicesimo religioso produsse poi l’avvento del cattolicesimo politico. Leone XIII con la sua enciclica sociale favorì la nascita e lo sviluppo di movimenti aperti alla dimensione sociale e politica sia all’interno sia all’esterno delle istituzioni: la rinascita della dimensione religiosa che animò l’impegno politico. Sturzo, quindi, si muove in questo contesto. Nato a Caltagirone in una famiglia dell’aristocrazia agraria, frequenta i Seminari di Acireale e di Noto. Lo scoppio delle rivolte dei contadini e degli operai delle zolfare siciliane lo porta ad orientare i suoi studi verso l’impegno sociale. Gli anni romani alla Gregoriana lo avvicinano alle posizioni di Leone XIII e lo stimolano a una visione critica dello Stato liberale: il centralismo, il trasformismo elettorale e l’assenza di una politica per il Mezzogiorno agitano le sue notti. La lotta per le autonomie locali diventa la palestra del suo impegno politico. Nel 1895 fonda il primo comitato parrocchiale e una sezione operaia nella parrocchia di San Giorgio, inaugurando, a Caltagirone, le prime casse rurali e cooperative. Ha a cuore i problemi del Mezzogiorno, in particolare la condizione contadina negli anni della crisi agraria. Nel 1902 i cattolici di Caltagirone si presentano come partito di centro, nel 1905 viene nominato consigliere provinciale e dal 1905 al 1920 ricopre la carica di pro-sindaco. Il discorso «I problemi della vita nazionale dei cattolici» pronunciato a Caltagirone il 24 dicembre del 1905 segna una nuova fase che apre, superando il non expedit, alla formazione di un partito laico, democratico e costituzionale di ispirazione cristiana. Ne «La nostra politica», un manoscritto datato 5 maggio 1907, si poneva alcune domande sulla politica dei cattolici e sul ruolo dei cattolici in politica. «Fin oggi non è stata politica di cattolici, come liberi cittadini che professano un principio religioso, e che al lume di quel principio agiscono, come nelle appartenenze private, così nelle pubbliche di loro spettanza; ma fedeli dipendenti da una Chiesa, che per necessità di difesa e per tradizioni rispettabili e giustificate, ha dovuto assumere una posizione conseguentemente politica. Oggi si ha da vedere fino a qual punto tale posizione di Chiesa agisca sulla nostra attività pubblica, e fino a quale punto essa si arresta, lasciando libera l’attività dei cattolici».
Con il successivo appello «A tutti gli uomini liberi e forti» del 1919 e con il programma del Partito Popolare ufficializza la piena autonomia dall’autorità ecclesiastica e la rinuncia al titolo di partito cattolico. «Ad uno stato accentratore, tendente a limitare e regolare ogni potere organico e ogni attività civica e individuale, vogliamo sul terreno costituzionale sostituire uno stato veramente popolare, che riconosca i limiti della sua attività, che rispetti i nuclei e gli organismi naturali – la famiglia, le classi, i comuni, – che rispetti la personalità individuale e incoraggi le iniziative private. (…) Ma sarebbero vane queste riforme e senza contenuto, se non reclamassimo, come anima della nuova società, il vero senso di libertà rispondente alla maturità civile del nostro popolo e al più alto sviluppo delle sue energie: libertà religiosa, non solo agl’individui ma anche alla chiesa, per la esplicazione della sua missione spirituale nel mondo; libertà di insegnamento, senza monopoli statali; libertà alle organizzazioni di classe, senza preferenze e privilegi di parte; libertà comunale e locale secondo le gloriose tradizioni italiche». Fondamentale il contatto con la realtà quotidiana. «Il partito popolare italiano – affermò a Milano il 1° ottobre del 1920 – è un partito sintetico nel programma ma realizzatore nella vita». Il politico siciliano aveva ben chiara la separazione tra religione e Stato senza però rinunciare ad affrontare le questioni etiche e sociali. Il 12 aprile a Torino, in occasione del quarto congresso nazionale, ribadì «La funzione storica del Partito Popolare Italiano»: «È superfluo dire perché non ci siamo chiamati partito cattolico: i due termini sono antitetici; il cattolicesimo è religione, è universalità; il partito è politica, è divisione». Il programma del partito popolare è in antitesi al liberalismo laico, al materialismo socialista, allo stato panteista e alla nazione deificata. È lo stesso Sturzo a chiedersi quali sono le prospettive programmatiche di un tale partito che, ispirato ai principi cristiani, deve avere un fondamento democratico-sociale. «Ma quale programma avrà mai questo partito cattolico nazionale? Sarà forse il contenuto religioso e morale del programma, che unirà tutti i cattolici di buona volontà sul terreno della lotta della vita pubblica? Oppure vi sarà un contenuto specifico che concreterà le aspirazioni dei cattolici italiani in una formula programmatica? (…) È logico affermare che il neopartito cattolico dovrà avere un contenuto necessariamente democratico-sociale, ispirato ai principi cristiani: fuori di questi termini, non avrà mai il diritto a una vita propria: esso diverrà un’appendice del partito moderato».
Nella relazione tenuta il 2 maggio del 1921 all’Augusteo di Roma ritroviamo il modus operandi del Partito Popolare: «Un programma politico non si inventa, si vive; e per viverlo, si deve seguire nelle sue fasi evolutive, percorrerne le attuazioni, determinarne le soluzioni nel complesso ritmo sociale, attraverso i contrasti e le lotte, nell’audacia delle affermazioni, nella fermezza delle negazioni».
La grande capacità fu quella di saper creare un partito organizzato in grado di «levare ai socialisti il monopolio della rappresentanza diretta delle classi lavoratrici», promuovendo sindacati e cooperative sulla base «di quadri nazionali, federali e confederali, e con le stesse rappresentanze e organismi provinciali». Sull’identità del partito, non ha mai avuto dubbi come rispose a Jervolino il 27 luglio del 1944. Da più parti veniva criticato perché il programma e l’orientamento del partito non «accentuavano il carattere cristiano-cattolico». Padre Gemelli e don Olgiati auspicavano un partito dalla fisionomia chiaramente «cattolica» a differenza di Sturzo fautore di un partito laico e aconfessionale. Lo spiegava bene con l’immagine della piazza adiacente a una chiesa dove «convengono tanto coloro che escono dalla Chiesa santificati, quanto coloro che vanno in Chiesa per santificarsi, e anche gli altri che si fermano in piazza per accudire ai loro affari o per conversare; anche costoro di tanto in tanto levano gli occhi alla chiesa, come se desiderassero di avere tempo o agio o volontà per entrarvi. Il partito politico può somigliarsi alla folla che sta in piazza, che da qualsiasi parte vi arrivi, non può non vedere la chiesa. I nostri principi sono chiari, il programma è lineare, il titolo parla da sé. Democrazia è il regime politico che noi vogliamo, ma cristiana ne è la concezione morale. Senza morale impossibile una sana politica; senza morale cristiana impossibile una politica degna dei paesi a civiltà cristiana».
Resta da chiedersi quale deve essere il contenuto del programma. Sturzo ne «La nostra politica», manoscritto datato 5 maggio 1907, poneva alcune domande («Moderato o progressista? Sociale? Integralista? Liberalista? Protezionista?») alle quali lui stesso rispondeva che non si poteva «dare una risposta concreta e opportuna perché appartiene ai casi contingenti dello svolgersi del progresso civile». Aggiungeva anche che «la politica ha per fondamento la libertà di volere e di potere, e la indipendenza nell’eseguire». Il bisogno di divenire un partito. La naturale esplicazione nel campo economico sociale. Il ritorno alle masse, la formazione lenta e agitata di un pensiero e di un programma positivo. Sono questi i passaggi da espletare. «Un programma politico non è né un elenco di proposizioni dogmatiche, né una lettera morta, come fissata in un ordine testamentario, che è al di fuori di noi stessi. Il programma è anzitutto una realtà, e come tale è vivente e si evolve, si specifica, crea attorno a sé la battaglia come teoria e come pratica, e segna nel suo sviluppo il cammino e il progresso del partito. Le stesse verità etiche (…) non possono divenire contenuto specifico e pratico di un programma politico, se non quando sono posti come problemi reali e presenti della vita pubblica del momento che si attraversa, e prospettati sotto l’angolo visuale caratteristico dell’attività di un partito». Il programma si costruisce giorno dopo giorno a stretto contatto con il Paese reale. «Il nostro programma sarà da noi elaborato e concretizzato nella vita quotidiana di studi, di lotte, di polemiche, di contributo legislativo, di attività, di trionfi e di sconfitte; e tutto contribuirà a renderci sempre più vicini alla realtà della vita, non attraverso puri schemi mentali o ordini del giorno, che assolvano allo sforzo verbale di un adattamento alla medie delle nostre assemblee, ma attraverso opere ricostruttive e sforzi pratici per l’attuazione concreta della realtà». Le soluzioni pratiche arrivano dal confronto e, in molti casi, sono dettate dalla situazione ma non improvvisate perché si fondano su radici valoriali solide. «Il nostro programma è concepito così come ragione dinamica di un intero organismo. (…) La forza dinamica di un partito è fatta di fiducia, non di preconcetti, di assimilazioni non di repulsione, di simpatia non di esclusivismi. (…) E il nostro partito deve anch’esso subire la prova della realtà e della lotta». Nel 1922 ribadisce a chi si rivolge il partito interclassista. «Il partito popolare italiano è un partito politico, ha la sua base prevalente nelle classi medie e di cultura e nelle classi lavoratrici, ha carattere interclassista e sintetico, ha un programma, non solo sociale basato sulla democrazia cristiana, ma un programma amministrativo, tributario e istituzionale; ha quindi una ragion d’essere e una sua vitalità; oggi è centro, domani sarà minoranza, potrà anche avere la direttiva della maggioranza». La realizzazione del programma rappresenta la meta da raggiungere. «Noi siamo e restiamo popolari e il nostro motto libertas resta come nostra insegna, e il nostro programma, culturale, sociale, economico, amministrativo politico, è la nostra meta. Errore è il credere che un partito esaurisca le sue forze nell’attività parlamentare o governativa».
Molti dei temi anticipati da Sturzo sono ancora al centro del dibattito politico. Nell’Italia della Seconda e della Terza Repubblica si discute in maniera spropositata sull’importanza della legge elettorale. Lo stesso può valere per i vari tentativi raffazzonati di riforma della Costituzione. Nell’intervento «Rivoluzione e ricostruzione» del dicembre del 1922, Sturzo spiega che i problemi istituzionali non dipendono né dal frazionamento dei partiti né dai sistemi elettorali ma piuttosto sono dettati dalla «inconsistenza» parlamentare. «Oggi è comune credenza che sia da attribuirsi al frazionamento dei partiti e alla mancanza di un partito forte di maggioranza, le difficoltà di vita e di azione della camera dei deputati; né è facile dimostrare che le 66 crisi di gabinetto in 74 anni di costituzione si devono alla inconsistenza e al tormento parlamentare in genere, quali siano i sistemi elettorali in vigore».
Il vero nodo è rappresentato dal ruolo dello Stato accentratore. «Il problema istituzionale è legato al problema del decentramento organico e amministrativo. A parte la smobilitazione dell’economia privata, di cui lo stato è oggi partecipe e tutore, lo stato accentra nel campo dei lavori pubblici, dell’agricoltura, del commercio, della scuola, del lavoro e nell’attività delle province e dei comuni molti compiti che spettano o possono essere utilmente disimpegnati dagli enti locali; occorre perciò dare una maggiore perequazione alle pubbliche spese tra le varie regioni d’Italia, una più sentita responsabilità amministrativa, una più elevata partecipazione di potere alle forze locali. Per questo è invocato il decentramento amministrativo». È opportuno rivedere l’organizzazione dello Stato, ma non basta distruggere. «Smobilizzo di enti, consorzi, unioni e simili, creati attorno allo stato, parassiti di esso, senza responsabilità e con confusione di funzioni e con turbamento dell’economia statale. Però non basta distruggere, se non si hanno i criteri della distinzione tra funzioni statali e funzioni locali, tra ragione politica e amministrazione, tra economia pubblica ed economia privata. (…) Sopprimere una spesa è facile, ma se questa spesa servirà a completare un’opera redditizia, quale la bonifica, che sarà all’agricoltura fonte di produzione e al fisco aumento di imposta, la spesa risparmiata è un danno».
Prospettive per la rappresentanza cattolica
Nel 2002 la Congregazione per la dottrina della fede pubblicò la Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica. Di fronte al relativismo culturale, l’allora prefetto card. Ratzinger sintetizzò i principi della dottrina cattolica su laicità e pluralismo: «La laicità, intesa come autonomia della sfera civile e politica da quella religiosa ed ecclesiastica, ma non da quella morale, è un valore acquisito e riconosciuto dalla Chiesa». Il cattolico, però, spesso corre il rischio di rimanere isolato nelle scelte sociali o in difficoltà nel garantire i valori quando per ottenere il medesimo risultato si possono mettere in atto strategie differenti. Ci sono una pluralità di partiti nei quali militare senza perdere di vista le proprie radici religiose. «La legittima pluralità di opzioni temporali mantiene integra la matrice da cui proviene l’impegno dei cattolici nella politica e questa si richiama direttamente alla dottrina morale e sociale cristiana. È su questo insegnamento che i laici cattolici sono tenuti a confrontarsi sempre per poter avere certezza che la propria partecipazione alla vita politica sia segnata da una coerente responsabilità per le realtà temporali».
Al centro dell’azione sempre e comunque la promozione della persona. «Come insegna il Concilio Vaticano II, la tutela “dei diritti della persona umana è condizione perché i cittadini, individualmente o in gruppo, possano partecipare attivamente alla vita e al governo della cosa pubblica”». Non basta aggregare le persone attorno a un’idea o a un principio. Sturzo non temeva la frammentazione dell’unità politica dei cattolici. Se a livello pratico molto dipende dalle contingenze storiche, a livello teorico non si può pensare all’unitarietà: il laico vive nel mondo. E il programma è la manifestazione più laica di un partito politico. Non si può fare un partito solo sui temi etici, ma si può però ragionare su una proposta che possa aggregare cattolici e non cattolici. Quando parliamo di prospettive per la rappresentanza cattolica dobbiamo fare attenzione a non mettere in atto operazioni nostalgiche con il rischio di bruciare nel battito di ciglia di una tornata elettorale progetti e idee interessanti. È, forse, più opportuno ragionare sul programma piuttosto che cercare semplicemente di occupare spazi. Papa Francesco nell’«Evangelii Gaudium» sottolinea l’importanza di «attivare processi». Questi piccoli gruppi hanno faticato e faticano, soprattutto, a essere significativi perché sono schiacciati mediaticamente dai partiti più strutturati. E così anche su taluni temi sui quali potrebbero fare massa critica si perdono nelle divisioni dei rispettivi schieramenti. Eppure ci sono molti terreni comuni sui quali la tradizione moderata cattolica di questo Paese potrebbe dire la sua. Guardiamo, ad esempio, al tema della famiglia sbandierato durante le campagne elettorali e poi lasciato sistematicamente in un cassetto. In Italia, purtroppo, tutto ciò che ruota attorno alla famiglia, nonostante la Costituzione ne riconosca l’importanza, viene considerato un argomento confessionale. Ci sono, invece, nazioni europee notoriamente laiciste come la Francia che hanno cercato di investire risorse nelle politiche familiari. Non è un caso che l’Italia sia stabilmente sotto la media degli Stati dell’Oecd (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) per il Pil investito in sostegno alla maternità e per la durata dei congedi parentali. Il discorso si potrebbe allargare al campo fiscale con l’ormai famoso quoziente familiare. Oggi la famiglia vive gravi emergenze: la mancanza del lavoro, i costi per la cura degli anziani destinati a salire, l’impossibilità in alcuni casi di conciliare i tempi del lavoro con quelli della casa… E tutto questo crea una spirale di sfiducia ben evidenziata dal tasso di natalità in una nazione sempre più vecchia che fatica a investire sul suo futuro (i figli). In Francia, ad esempio, investono per la maternità qualcosa come il 5% del Pil. Quando capiremo che la famiglia è davvero un investimento sul futuro, non un costo per lo Stato, sarà troppo tardi. Servono interventi organici e strutturali.
Se è vero che, come recita il numero 192 di «Evangelii Gaudium», «Nel lavoro libero, creativo, partecipativo e solidale, l’essere umano esprime e accresce la dignità della propria vita», la vera sfida oggi della politica è il lavoro. Anche per questo motivo la 48ª Settimana sociale dei cattolici italiani (26-29 ottobre 2017, Cagliari) ha focalizzato l’attenzione proprio sul tema «Il lavoro che vogliamo. Libero, creativo, partecipativo, solidale». Giovani che non lavorano, lavoro «troppo precario», caporalato, lavoro femminile poco e malpagato, sistema educativo inadeguato a preparare al lavoro, lavoro «pericoloso e malsano». Sono queste alcune delle «criticità» del nostro Paese. Chi si ispira alla tradizione cattolica deve riprendere in mano la formazione professionale che nell’Ottocento ha visto in prima linea i cosiddetti Santi sociali (pensiamo a San Giovanni Bosco). Non si possono altresì tralasciare le nuove condizioni dettate dal lavoro 4.0. Il mondo del lavoro sta cambiando così in fretta da rivoluzionare stili di vita e modelli etici. Cosa significa oggi lavoro (umano)?
Nella Seconda Repubblica individuiamo una pericolosa «polarizzazione dei valori» come asserisce Maurizio Serio in «Abbandonare il corporativismo per una nuova rappresentanza»: libertà contro uguaglianza, sussidiarietà contro solidarietà, diritti contro giustizia, individualità contro comunità, autonomia contro responsabilità. «Ciò ha portato all’erosione delle basi sociali della nazione, consegnandoci a un conflitto permanente e difficile da disinnescare, praticamente su ogni questione opinabile». Abbiamo bisogno di un «popolarismo 2.0 imperniato su due grandi figure come Sturzo e De Gasperi». Da dove partire? «Dal lungimirante “concetto strategico” elaborato da questi Grandi in periodo non meno difficili come furono i due dopoguerra e imperniato: sulla collaborazione internazionale come metodo di apertura della ragion politica domestica; sulla libertà economica come esercizio virtuoso del risparmio più che del consumo; sulla partecipazione politica che, molto più della coesione sociale agognata oggi come remedium concupiscentiae della modernizzazione avanzata, ci restituisce l’immagine della Nazione rappresentata appunto “per opzioni” e non per valori o interessi». Non è il tempo di pensare alla strategie, ma piuttosto è arrivata l’ora di discutere di opzioni percorribili.«Non lambicchiamoci sull’opportunità o sulla necessità di una nuova formazione politica che realizzi i sogni di una nuova generazione di outsider o riattizzi i nostalgici del bel-tempo-che-fu, ma iniziamo a discutere di opzioni percorribili». La strada da imboccare è quella delle riforme. Fra gli interventi da mettere in campo, il decentramento sturziano, oggi un «federalismo sano» per utilizzare le parole di Serio. «Un federalismo sano, ossia depotenziato dalla carica eversiva degli orientamenti “di principio”, non può che far leva su concrete attuazioni della sussidiarietà, verticale e orizzontale, chiamando alla gestione e alla implementazione delle politiche necessarie i gruppi coinvolti, che siano organizzati formalmente o meno. Alle istituzioni spetta un ruolo di raccolta e coordinamento che, se ben svolto, non può che sottolineare il carattere di necessità di una cabina di regia pubblica, con positivi riflessi in termini di consenso politico».
Popolarismo antidoto al populismo
«Evitare gli inconvenienti che derivano dall’ora che urge e dalla folla che incalza». Così Sturzo scriveva a Jervolino il 27 luglio del 1944. Può essere davvero il popolarismo l’antidoto al populismo? Sì, se facciamo riferimento al popolarismo di marca sturziana. «Il popolarismo sorse e si affermò in partito di massa saldo e vigoroso; negò la rivoluzione, ammise la costituzionalità dello stato, ma ne volle la riforma organica dal centro alla periferia, dal sindacato al senato» come sottolineò lo stesso Sturzo nel discorso nella sala della Pergola a Firenze, il 18 gennaio 1922, per il triennale della fondazione del Partito Popolare Italiano. Il populismo non nasce dal nulla e si alimenta di alcune storture del sistema democratico. Ecco, allora, che diventa fondamentale sanare la politica. Oggi come ieri possiamo riprendere alcune osservazioni di Sturzo che vanno sì contestualizzate storicamente ma che allo stesso tempo si presentano come straordinariamente attuali. Il 17 novembre del 1918 a Milano tratteggiava in questo modo «I problemi del dopoguerra», in particolare si scagliava contro la «Tirannia burocratica». «Questo fenomeno di centralizzazione statale e di burocratizzazione della vita nazionale si ripercuote in tutti i campi della attività sociale, è divenuto l’assurdo sperimentale opprimente della vita politica moderna. (…) Il centralismo di stato si traduce in forme di tirannia di partiti e di organismi extra-statali, operanti all’ombra propizia della burocrazia, che pervade le fibre del corpo sociale come un bacillo, che attenua le forze e toglie le energie libere e operanti».
Dopo la tragedia della Prima guerra mondiale (per i contemporanei potremmo dire dopo la crisi economica), è necessario «ricominciare ‒ dichiarava il 30 marzo del 1925 a Parigi ‒ nella coscienza collettiva a cercare l’ubi consistam, la forza intima propultrice sociale, in nuove forme organiche e in nuove forze vitali». Il rischio del populismo era dietro l’angolo. «Ogni movimento di masse, in un primo tempo, tende ad abbattere più che a costruire, sperpera il residuo di beni che crede maltenuto dai profittatori di ogni guerra, scuote i cardini secolari, sui quali si credono ben piantate le società. Se poi si aggiunge il grido di rivolta, se si alimenta l’odio di classe, se si combatte ogni autorità, in quanto rappresenta anche un eccesso di dominio; ecco che a resistere e a riprendere il dominio risorgono le forze dette conservatrici, che allo spirito democratico e al principio di libertà attribuiscono le cause del malcontento, delle turbolenze e dei sommovimenti». Le responsabilità erano e sono da individuare nell’organizzazione dello Stato burocratico e accentratore. «Impedisce ogni libero svolgimento delle forze ingenite delle popolazioni e degli organismi, limita le iniziative personali, tende a fare uniforme la vita e a soffocarla con regolamenti pedanti e vessatori, invade industrie, commerci, scuole, chiese, beneficenza, lavoro, comuni e province». Va fatta un’operazione culturale per recuperare il concetto di Stato e di bene comune, perché «lo stato sono i cittadini; lo stato non è altro che la stessa società in quanto politicamente organizzata, e non è un ente esterno e per sé stante fuori dei cittadini». Lo Stato, quindi, ha il compito di mantenere il controllo ma non deve sopprimere la libertà dei cittadini. Il populismo si affronta percorrendo il territorio, incontrando le persone e ascoltando i loro problemi. Un partito, indipendentemente dai sondaggi e dai calcoli elettorali, deve avere una sua identità. Il Partito Popolare Italiano ha saputo essere significativo, assumendo «nette posizioni non solo nelle discussioni di politica generale, ma sul terreno dei contrasti pratici, quali lo sciopero dei ferrovieri e dei postelegrafonici, le lotte fra sindacati bianchi e rossi per la libertà di lavoro e organizzazione, le agitazioni agrarie e i movimenti per lo spezzamento del latifondo, per il riconoscimento delle classi, per l’istituzione delle camere di agricoltura». Idee e programmi al centro prima ancora dei candidati. Bisogna riscoprire e valorizzare i principi fondativi della Dottrina sociale della Chiesa: dignità umana, solidarietà, sussidiarietà e bene comune. Per la concezione cristiana la sussidiarietà deve essere il motore della solidarietà. Tenendo ben presenti le due prospettive: sussidiarietà verticale e sussidiarietà orizzontale. La solidarietà senza sussidiarietà diventa, però, assistenzialismo come abbiamo potuto constatare soprattutto nel Mezzoggiorno. Lo Stato deve fornire semplicemente la cornice giuridica dentro la quale si muovono le persone. Una forza popolare, oggi, dovrebbe creare le condizioni per una ripresa del mercato del lavoro, dovrebbe ridare voce alla classe media del Paese sempre più bistrattata dal mare magnum della burocrazia e sempre più impoverita, dovrebbe garantire maggiori tutele per i lavori flessibili (assistenza, servizi…), dovrebbe fare attenzione all’etica ambientale, alle nuove forme energetiche e alla cura della casa comune, dovrebbe facilitare la scelta educativa delle famiglie soprattutto in campo scolastico, dovrebbe smascherare quelle forme di lavoro subordinato ma non retribuito, dovrebbe ridare dignità al mondo degli insegnanti, dovrebbe riqualificare dal punto di vista architettonico e sociale le periferie, dovrebbe pensare forme abitative nuove per una popolazione sempre più anziana e autonoma, dovrebbe stimolare l’imprenditoria giovanile, dovrebbe prestare attenzione agli ultimi, dovrebbe mettere alle strette il gioco d’azzardo, dovrebbe rivedere il servizio civile, dovrebbe parlare di accoglienza senza paura, dovrebbe affrontare gli squilibri tra Nord e Sud, dovrebbe garantire il rispetto delle regole (tasse comprese), dovrebbe favorire una mobilità sostenibile, dovrebbe agevolare la conciliazione del tempo tra lavoro e famiglia, dovrebbe essere una forza europeista senza se e senza ma. Non è poi così vero che nel ventunesimo secolo non ci sono le condizioni per prospettare un progetto politico alternativo. Forse manca lo spirito di iniziativa che ha animato Sturzo in un contesto altrettanto difficile. La via da intraprendere, come sottolineò il sacerdote di Caltagirone il 18 gennaio del 1922 a Firenze per il triennale della fondazione del Partito Popolare Italiano, è quella percorsa dal Partito Popolare, che «ha polarizzato forze nuove, ha riorganizzato antichi elementi, ha conquistato spiriti liberi nel campo della cultura, larghe masse nel movimento economico, posizioni politiche anche di primo ordine, in mezzo a diffidenze o disprezzi o tolleranze, quasi verso un estraneo o più ancora un intruso nel corpo sociale».
Fonte: Lastampa.it articolo di Luca Zanardini