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Il valore educativo della commemorazione dei defunti

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  Per la Chiesa Cattolica Romana il 2 novembre è il giorno riservato alla commemorazione dei fedeli defunti che si fonda sulla dottrina che le anime dei fedeli, che alla morte non si sono purificate dai peccati veniali, non possono andare in Paradiso se non tramite la preghiera e il sacrifico della messa.

  E’ una ricorrenza risalente al decimo secolo e si basava anticamente sulla credenza dei contadini di molti paesi cattolici che nella notte tra l’1 e il 2 novembre i morti tornino nelle loro case precedenti e si cibino degli alimenti dei vivi.

  Da alcuni anni, a questa ricorrenza si è contrapposta, importata dall’America, quella di Halloween del 31 0ttobre, vigilia della festa di Tutti i Santi, festa popolare di tipo pagano in cui sin dal tardo pomeriggio e fino a notte fonda i ragazzini organizzano party, balli e gare, indossano maschere macabre e mostruose e vanno in giro con cestini chiedendo dolcetti ai vicini di casa che usano lasciare cibo e doni fuori, sulle porte, o cestini ricchi di prelibatezze collocate, non fuori, ma all’interno delle abitazioni.

  In Sicilia e in altri luoghi del mondo, si crede che i defunti visitino i cari ancora in vita portando dei doni ai bambini buoni e ubbidienti che sono nascosti in casa e fatti trovare per loro al mattino presto come fosse una sorta di caccia al tesoro. Così è stato per tanti di noi da bambini e così ci si augura lo sia per il futuro dei nostri figli e nipoti per continuare a tramandare una tradizione dall’alto valore educativo.

  Questa credenza popolare sui morti che tornano in vita e lasciano dei doni ai bambini è un modo fantastico e popolare per esorcizzare la morte, che, mediante la commemorazione dei defunti, da momento di distacco dalla vita delle persone a noi più care, diventa occasione per ristabilire un rapporto di comunanza di affetti mai interrotto, mentre i loro doni ci stanno a significare che saranno sempre presenti nel ricordo di chi dopo di essi rimane in questo mondo.

  In questa prospettiva la morte appare un controsenso rispetto alla vita, una tragedia greca contro natura quando a morire sono dei bambini, ancora più dolorosa, una ferita al cuore incancellabile, se sono i nostri figli (il coltello che trafigge il cuore della Madonna ce lo sta a ricordare plasticamente).

  La morte è crudele, ingiusta, è contro ogni logica umana, non è per niente di gradimento a nessuno, credente e non, giovane e vecchio, sano e persino a chi è malato e ancora riesce a sopportare il dolore della sua esistenza.

  La morte si accetta perché è un fatto naturale, in tanti casi per fede in un’altra vita migliore di questa, ma se potessimo, con tutte le nostre forze, la allontaneremmo dalla nostra vita, specialmente quando si sta bene e si è in ottima salute.

  In verità, se ognuno di noi avesse la fede nella resurrezione e in un Dio creatore e padrone della vita e della morte, quest’ultima non sarebbe un male, non più la fine di tutto, ma l’inizio di una nuova vita piena d’amore e di felicità.

  Alla luce della fede, pertanto, alla morte bisogna pensare anche perché abbraccia la nostra intera vita, ma, se possibile, con serenità, senza eccessivo timore, accettandola – perché no? – alla maniera francescana come “sora morte corporale“. Altrimenti, si corre il rischio che essa diventi una continua fissazione, il pensiero dominante e assillante di tutta la nostra vita.

  Era opportuna l’usanza nell’antica Roma di dire al generale vincitore che rientrava nella città: “Memento mori” (ricordati che devi morire) per ricordargli la sua natura umana mortale.

  Fanno bene i monaci trappisti di clausura a dire: “Fratello ricordati che devi morire”, per non abituarsi troppo ai beni di questa vita che passa in fretta, sia per i ricchi sia per i poveri.

  E’consuetudine popolare ripetere che i primi a morire sono i buoni per crearci l’illusione di averla esorcizzata e allontanata dalla nostra vita, mentre l’abbiamo semplicemente differita, magari per ricordarci che il bene trionfa (i buoni vanno in Paradiso) e il male (i cattivi devono soffrire per meritarselo) deve essere espiato in questa terra.

  Quel che deve stare a cuore per ognuno di noi in questa vita è che la morte la si valuti e la si accetti in positivo senza farne un dramma e questo deve valere sia per gli atei sia per i credenti.

  L’ateo, che non crede a una vita ultraterrena, dalla morte non ha niente da temere, perché quando arriverà, egli non ci sarà più, scomparendo (il naufragare nel mare dell’infinito dopo la tempesta) nel nulla eterno da cui ritiene di provenire.

  L’uomo di fede, che crede nell’aldilà e nella vita eterna, che la morte conduca ad una nuova vita che non terminerà mai e sarà al cospetto di Dio e di tutti i redenti (l’estasi contemplativa di Dio e dei suoi Santi), dalla morte non ha nulla da temere, perché con essa raggiungerà la felicità eterna.

Giuseppe Sammartino

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