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Malinconie e incanti, un bel libro di poesie e racconti dell’agirino Salvatore Rocca

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   Prima che la notte ne offuschi la memoria, Salvatore Rocca, già maestro nelle scuole elementari di Agira, nel giorno dell’ultimo suo compleanno ha regalato ai parenti e agli amici “coi quali si condividono le gioie e i momenti meno belli della vita” un libro di poesie e racconti scritti nei momenti di ozio pomeridiano, da lasciare in eredità per essere ricordato da “tutti loro con affetto e, perché no?, anche con orgoglio”.

   Il maestro Rocca nel 1996, per conto del Comune di Agira, ha pubblicato il volume Dissa u proverbiu anticu cu nun sbagghia “, costruito sul filo della memoria e delle tradizioni popolari”, che ha avuto un grande riscontro popolare; nel 2003 ha fondato l’Università Popolare del Tempo Libero, per “un quinquennio promotrice di numerose, apprezzate e partecipate iniziative culturali, artistiche e ricreative”; da più di un ventennio si impegna a promuovere un interesse turistico attorno alla storia e i monumenti di Agira, ne è eccellente prova l’ultimo suo scritto apparso il 23 aprile di quest’anno nel periodico della Diocesi di Nicosia … in Dialogo dal titolo Agira: Alle origini dell’umanità.

   Questo pregevole libro, completato al termine di un periodo di sofferenza, l’ha dedicato alla moglie Marianna per ringraziarla della “meravigliosa vita che gli ha regalato”, per ricordare ad entrambi, come efficacemente riportato nella prima poesia della raccolta, che sono “inutili le parole tra noi” quando “i miei occhi impacciati cercano i tuoi”.

   Un amore, il suo, forte, vivo, mai interrotto, tanto che, per il compleanno della moglie, con la poesia, appunto, intitolata Buon Compleanno, ha osato invitare il sole alla sua festa, anche per un’ora, giusto il tempo di renderla radiosa “per la foto da consegnare ai nostri ricordi futuri”.

    Con la poesia Agira, da cui non si vede il mare “il sogno che nei meriggi torridi di scirocco immobile riesce a lenire l’afa e la calura”, con amarezza e finezza stilistica, identifica il suo paese quale simbolo di “un’altra Sicilia, una Sicilia fatta di silenzi interminabili, rotti dai singhiozzi dignitosi di chi parte e dal pianto disperato di chi resta, questa è una Sicilia vecchia e stanca… questa Sicilia è una metafora della morte”.

   Con la bella lirica A mio figlio, pur esprimendo il cruccio di averlo “fatto nascere nel mondo delle ansie da dove sono fuggiti lo stupore e la meraviglia”, non si fa vincere dal “pessimismo e dall’impotenza” perché quel mondo non è alla fine, il figlio può ancora salvarlo, lasciando che “i papaveri rossi sul ciglio della strada ti aprano in primavera il cuore alla speranza”.

   In Sere d’estate ricorda con strazio e dolore coloro che son morti prima del tempo, “che non hanno più nessun ruolo nella commedia. Solo lapidi sporche di polvere e di fiori secchi”, perché la morte come una “vecchia giardiniera, si sa, sfronda gli alberi dei rami più belli, dei rami a noi più cari” momento questo terribile in cui “mi assale la paura che il buio possa sorprendermi per strada”.

   Con la poesia I mietitori (il suo capolavoro), divisa in tre parti, ove racconta con struggente nostalgia ed efficace descrizione narrativa, le emozioni, le speranze e le frustrazioni di un’intera classe di braccianti agricoli, “catapultati, nell’arco di pochi decenni del secolo scorso, dal mondo rurale arcaico al mondo dell’industria”.

   Completano la riuscita raccolta due brevi racconti dal titolo Donna Tuzza e Matrimonia e viscuvati…e alcune lettere immaginarie mai spedite.

Giuseppe Sammartino

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